GRADISCA, NOTRE AMOUR
di Gianfranco Angelucci
“Federico mi aveva telefonato alle tre di notte: “Magalotta sei sveglia? Dovresti venire a Cinecittà per un provino.” “Quando?” “Domani mattina alla otto, pronta al trucco”. “Federico, come faccio…” “Non lo so, ma io ti aspetto alle otto”. Mi sono alzata come una molla, mio marito Jean-Claude s’era destato anche lui: “Dove vai?” “All’aeroporto, m’ha chiamato Fellini”. In un momento ero pronta e sono uscita di casa. Ho preso il primo aereo per Roma e alle otto ero veramente a Cinecittà. Danilo Donati mi aspettava con il costume già pronto: il tailleur rosso, il basco in testa, tutto mi stava perfettamente. Mi trovai come in un sogno davanti alla macchina da presa: “Ma Federico, che devo fare?” “Fai sci sci, fai la donna sensuale”. Avevo una lunga collana di perle al collo, ho cominciato a giocare con quella, addentandola, mostrando la passione. Poi ho sentito un gran silenzio, un attrezzista faceva finta di soffiarsi il naso per nascondere la commozione, con le lampade puntate su di me non riuscivo a vedere bene costa stava facendo Federico voltato di schiena verso una lavagna. Aveva scritto col gesso: “E’ ARRIVATA LA GRADISCA”. Così era scoppiato un grande applauso e anche a me sono spuntate le lacrime. In questo modo è cominciato per me “Amarcord”, un film meraviglioso, un capolavoro come solo Fellini sapeva fare!”
Magalotta era Magali Noël, che se n’è andata portandosi in Paradiso la Gradisca, il sogno proibito di Titta, il protagonista adolescente del film che Federico aveva dedicato alla propria infanzia, al borgo, ’E borg, ispirandosi alla famiglia dell’amico Luigi Benzi detto Il Grosso. Magali doveva interpretare la più bella ragazza di Rimini che viene reclutata dal mezzano per offrirsi al Principe Ereditario di passaggio, ospitato al Grand Hotel. Così, infilata in un sontuoso letto a baldacchino ancora con il baschetto rosso sui capelli, quando il principe entra in vestaglia di seta e con un lungo bocchino tra i denti, mormora estasiata, battendo le ciglia: “Signor Principe, gradisca…” E con la mano abbassa il lenzuolo. Ma la scena finisce lì, sebbene l’attrice potesse vantare un corpo perfetto e soprattutto gambe bellissime. Delle quali ne “La dolce vita” si invaghisce a prima vista il papà di Marcello vedendola ballare in un night club; una delle sequenze più dolci e struggenti, un omaggio del regista a suo padre Urbano. Otto anni dopo Magali Noël veniva chiamata di nuovo da Fellini per “Satyricon”, in cui interpretava Fortunata, la viziosa moglie di Trimalcione. Insomma Magali era di casa, arrivava almeno una volta l’anno a Roma per una rimpatriata ed era sempre una festa. Perché possedeva la gioia del cuore, era una creatura immensamente generosa, con due occhi stellati che dardeggiavano bontà e intelligenza. Era una francese di Smirne, per decenni aveva mantenuto la sua casa in Turchia, e aveva iniziato la carriera dalla gavetta, facendo la ‘parade’, sfilando cioè vestita da majorette per invitare la folla ad entrare nel circo. S’era formata nella più grande scuola di spettacolo nel mondo da quando aveva quindici anni, intrattenendo il pubblico nell’intervallo, con un pitone intorno al collo. Ballava, cantava, recitava, desiderava infinitamente il palcoscenico, confrontarsi dal vivo con il pubblico che o ti ama o ti divora. Possedeva la disinvoltura e la forza degli artisti del varietà che quando si alza il sipario non cercano scuse anche se le gambe tremano, pronti a combattere e a vincere. Quando girai il film intitolato “I protagonisti di Fellini” la sua intervista risultò una delle più brillanti, delle più coinvolgenti, perché bastava accendere i riflettori e lei si illuminava all’istante, come per uno scatto interiore, il segno araldico della commediante. Generosa come nessun altro. Nella vita aveva persino allargato la famiglia adottando due bambini con qualche problema. La sua felicità consisteva nel dare, proprio come la Gradisca. Non dimenticherò mai la sua telefonata dalla Svizzera appena apprese che ero stato chiamato a dirigere la Fondazione Fellini: “Cosa posso fare per Federico, chiamami e io parto”. Arrivò davvero e alla conferenza stampa non si entrava per quanti giornalisti erano accorsi, e quanti ammiratori aspettavano di incontrarla, di avere un autografo, di poterla ammirare in carne e ossa. La Gradisca!
In Francia era una diva di rango, diventata famosa con “Rififì” di Jules Dassin. Aveva recitato con i più grandi maestri, Renè Clair (Grandi Manovre) e persino con Jean Renoir (Eliana e gli uomini). Fra tanti film di cassetta girati in Italia con la leggerezza della persona spiritosa, pronta a dare il meglio di se stessa (con Emmer, Girolami, Castellano e Pipolo, Marco Vicario, Brunello Rondi) aveva infilato anche titoli importanti, che lasciano un’impronta, come “Z l’orgia del potere” di Costa Gavras. Da lunedì scorso avevo provato e riprovato a chiamarla, per invitarla a un programma di Marco Giusti dedicato ad “Amarcord” restaurato dalla Cineteca di Bologna, evento di apertura del prossimo Festival di Venezia. Non riuscendo a raggiungerla né a Friburgo dove viveva stabilmente, né a Parigi, né in Provenza, la sua amatissima casa per l’estate, avevo temuto il peggio; non era da lei sparire a quel modo. E infatti, scomparso Jean-Claude il marito che la adorava, fiaccata dalla malattia più che dagli anni – il suo spirito era rimasto intatto, scintillante, indomabile – si era ritirata in una casa di riposo. Se n’è andata di prima mattina, in un sospiro, durante il sonno; correndo, chi potrebbe dubitarne, verso il suo ultimo set. Ciao Gradisca, portatrice di gioia, chissà che festa ti faranno Lassù!
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