di Francesca Fabbri Fellini
La mamma mi raccontò cosa aveva esclamato zio Chicco vedendomi la prima volta: “Che bella questa bamboccia, è nata con la ruggine, perché è stata lì per dodici anni”. Si riferiva ai miei capelli rossi.
Ero nata dopo diversi anni di matrimonio e fui subito ‘figlioccia’ di Federico, mio padrino al battesimo insieme a zia Getta.
Una tragedia aveva segnato la loro vita: Giulietta e Federico avevano avuto un figlio, Pier Federico, nato il 22 marzo 1945, e morto appena dodici giorni dopo la nascita, il 2 aprile.
I miei capelli tizianeschi, gli occhi verdi e le guanciotte rubizze non potevano non sollecitare il suo spirito di grande caricaturista, che coglieva dalla realtà delle cose l’intensa armonia che governa il sogno. Così ispiravo il ‘gigante buono’ che mi ritraeva come un personaggio dei fumetti.
Gli piaceva disegnarmi con una mantellina che lui stesso mi aveva regalato e che sembrava quella dei carabinieri: blu con le strisce rosse sulle spalle.
Quando tornava a Rimini mi prendeva e mi portava da Scacci, il negozio di giocattoli più antico della mia città. Fra i tanti regali ricordo un teatrino con una scatola di burattini, di quelli che si infilano con le manopole. Giocavamo insieme creando storie buffe e personaggi fantastici.
Per me zio Chicco era l’uomo dei sogni: grande e magico. Di certo ha influito sulla mia creatività. La prima volta che ho messo il nasino nel mondo della ‘celluloide’ fu all’età di 8 anni, al Teatro 5 di Cinecittà,il teatro più grande d’Europa.
Lo ricordo bene: Federico Fellini stava girando ‘Amarcord’ pellicola entrata a fondo nella cultura italiana, tanto da fare del titolo un neologismo. Amarcord è il film che ho amato di più.
Fu lì che cominciai a capire che zio Chicco, non era solo un compagno di giochi, ma un ‘vero signore’ dei propri set. Dirigeva con sicurezza la troupe, spiegava le espressioni agli attori, mostrava alle comparse come muoversi. Un modo di essere e vivere il ruolo di “director” tutto particolare.
Con lui ho passato molto tempo a tavola. Era un buongustaio: un gourmet della vita e della buona tavola. Anche zia Giulietta era una gran gourmet e per il suo Federicone cucinava sempre quantità industriali di minestrone, tagliatelle al ragù, e il pollo alla diavola. Soprattutto era bravissima a fare la moltiplicazione dei pani, dopo la solita telefonatina delle 21: “…Giuliettina, non siamo in quattro questa sera ma quindici”.
Mi spiace da matti non aver neanche uno dei tovaglioli che disegnava al ristorante tra una portata e l’altra preso dalla sua inesauribile creatività, lasciandoli come omaggio poi ai suoi commensali.
Non gli ho mai chiesto niente, eccetto un consiglio a 19 anni: quale strada intraprendere nella mia vita. Per la mia innata e incontinente curiosità mi consigliò di laurearmi in lingue e di far la giornalista. Così mi sono laureata e oggi sono giornalista radio televisiva.
Una delle cose che ho ereditato da lui è la passione per il mistero e la curiosità per i fenomeni difficili da comprendere. Un giorno mi raccontò di una seduta spiritica alla quale aveva partecipato, a Treviso. Il medium con voce soffiata cominciò a raccontare episodi dell’infanzia di Federico che solo il padre Urbano poteva conoscere. Poi lo invitò a fargli una domanda. E Federico chiese: “A che cosa può assomigliare la condizione di quando termina la vita?”
La risposta fu suggestiva: “E’ come quando in treno di notte, lontano da casa, pensavo a voi, in una specie di opaco dormiveglia, di semincoscienza, col treno che mi portava sempre più lontano.”
A 70 anni (era il 1990) andò in Giappone con zia Giulietta a ricevere il più alto riconoscimento internazionale nel mondo delle arti: il Praemium Imperiale gli riconosceva “il contributo decisivo al progresso dell’arte cinematografica, sempre unanimemente riconosciuto”.
In quell’occasione incontrò due imperatori: quello vero, Akihito, che lo accolse nella sua residenza ufficiale a Palazzo Akasaka e Akira Kurosawa, suo collega, soprannominato imperatore del cinema giapponese che lo invitò a mangiare sushi, al famoso ristorante Ten Masa, seduti su un tatami, scalzi.
L’imperatore Akihito gli aveva detto: “Questo premio che le consegno è in nome di una moltitudine invisibile”. E lui commentò: “…Certo che come figlio di un commesso viaggiatore, oriundo di Gambettola, non posso proprio lamentarmi del cammino che ho percorso”.
Parlando della sua fama riusciva a dire: «Felliniano: avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo».
Oggi 2010, a 17 anni dalla sua scomparsa e a 50 dalla Dolce Vita, per me donna che si occupa di comunicazione, cercatrice di immagini e sogni, zio Chicco resta una fonte inesauribile di meraviglia.
>> Questo articolo è pubblicato su SENTIRE 010 giugno-dicembre 2010
fonte: GIORNALE SENTIRE link:http://www.giornalesentire.it/2008/aprile/2002/francescafabbri-mioziofedericofellini.html