Dopo quel precoce apprendistato, frequenta il Liceo artistico di via Ripetta, coltivando e approfondendo quelle discipline artistiche.
1939 – 1950: conosce Federico Fellini e collabora insieme a lui al Marc’Aurelio, il periodico satirico per il quale firmano schizzi, caricature, vignette. Esegue ritratti e caricature delle vedettes del teatro e del cinema; realizza manifesti per il cinema (“Per chi suona la campana”, “Scarface”, ecc…).
1950 – 1959: vive a Parigi, dove è direttore artistico della casa editrice Opera Mundi , per la quale crea una scuola di disegnatori.
Dal 1959 al 1961 soggiorna a Milano come autore delle copertine di Arianna e dei classici Mondadori.
1962 – 1980: lavora per Federico Fellini, curando da “Roma” in poi la parte pittorica dei suoi film.
Insieme a lui, lavorano per il grande regista anche i suoi figli, Giuliano e Antonello.
Dal 1980 Rinaldo Geleng si dedica prevalentemente alla pittura e al ritratto.
Nel 2003, in seguito a complicazioni del suo stato di salute, scompare a Roma, la sua città natale.
– Presentazione di Federico FELLINI del Libro “GELENG” – 1989 :
In questo librone di ritratti, c’è quasi tutta la vita del mio amico Rinaldo, pittore, sin da quando, insieme, cinquant’anni fa, la sera, nei ristoranti o nelle trattorie romane che ci lasciavano entrare, ci spostavamo da un tavolo all’altro per domandare se la signora o il signore, che fissavano ostentatamente il piatto, avrebbero gradito un “very similar profile, or a frontal face portrait”, e in un sussurro aggiungevamo fulmineamente. “very quickly!”.
Qualche volta chiedevano: “E perchè in inglese?”. E noi, con un candore da schiaffi, a una sola voce: “Non siete forse turisti?”.
Il falso equivoco funzionava, la diffidenza si scioglieva in sorrisetti divertiti e compiaciuti. Ci guardavano con simpatia e una sfumatura di graditudine.
Gli occhi si posavano con benevola curiosità sui ritrattini – campione, che sfogliavo con la destrezza di un prestigiatore.
Tranne Trilussa – noi non sapevamo fosse lui – che fissandoci attraverso le sue lunghe ciglia, improvvisò quasi un sonetto: “Ma ce fate pè davero? Ecchè ritrattisti siete si me scambiate pè straniero?”.
Forse il poeta non disse proprio così, anzi, è sicuro che non disse niente, ma con una mano grande, levigata, di marmo come quella di Mosè, ci invitò a cambiare tavolo.
A essere sinceri, quello da cacciare ero io, solo io, che pasticciavo faticosamente legnosi profili caricaturali che non assomigliavano mai; Rinaldo invece era bravissimo, e se qualche volta, finito il lavoro ci invitavano a pranzo, il merito era tutto suo. I ritratti eseguiti fulmineamente come promesso, riscuotevano approvazione, consensi, e nell’entusiasmo per quanto era riuscito a fare in pochi minuti, piovevano ordinazioni, proposte, committenze, per altri ritratti: al papà in divisa, alla nonna con l’abito della festa, alle gemelline. Una volta un signore con gli occhiali da sole scurissimi, che prima di risponderci aveva lentamente mangiato il primo piatto, il secondo, il contorno e il formaggio, lasciandoci in piedi come due camerieri disoccupati, si tolse infine gli occhiali, e indicandosi gli occhi, affetti da uno strabismo da applausi, domandò con severa dignità se nel ritratto era possibile ignorare il difetto. “Quale difetto?”, chiedevo io mentre Rinaldo si era già seduto, e con una tavoletta sulle ginocchia stava schizzando la parte superiore del viso del signore che adesso, nell’abbozzo, aveva uno sguardo diritto, penetrante, dolce e pensoso.
“Sono un industriale del nord”, disse il signore annuendo ammirato – “desidero veniate entrambi a Milano. Ho deciso, per Natale, di fare un regalo ai migliori tra i miei impiegati. Che pensate, come cadeau, di un ritratto ciascuno?”.
A mezzanotte eravamo ancora seduti al suo tavolo, circondati dai camerieri, dai cuochi, dal padrone e dalla moglie: tutti a guardare Rinaldo che continuava a riempire i fogli fabriano della sua cartella con facce a faccette, sguerciandosi a guardare attraverso una lente fornita dall’industriale, una fotografia poco più grande di un francobollo che il mecenate aveva pescato dal suo portafoglio e dove sembra ci fosse tutta la sua famiglia seduta in giardino sotto l’ombra di un cedro del Libano. Il fatto che Rinaldo potesse intravvedere, riconoscere, cogliere un volto, una fisionomia, dei connotati, in quel rettangolino buio della foto, aveva qualcosa di miracoloso, e l’industriale con gli occhi lustri, ci abbracciava con gran calore, domandandoci intensamente perchè non andavamo a Melbourne, paese dove, secondo lui, l’arte italiana era apprezzata come in nessuna altra parte del mondo.
Non siamo mai andati in Australia a controllare se era vero, ma Rinaldo, a Milano ci andò il giorno dopo e fece il ritratto a tutti gli impiegati di quel signore, e poi alle mogli, ai figli, agli amici degli amici… da quel giorno non si è più fermato: migliaia di volti, industriali, porporati, aristocratici, finanzieri, donne bellissime.
Gèleng ha fatto quello che voleva fare, che sa fare, e l’ha fatto per tutta la vita, e continua a farlo, senza ripensamenti, senza deviazioni, con assoluta naturalezza, con umiltà e quella modestia artigianale che appartiene agli artisti identificati in un mestiere che eseguono senza perdere tempo a farsi domande o a giudicarsi.
L’aver scelto, come pittore, di dedicarsi al ritratto e quindi ai volti, alle fisionomie, alle espressioni, questa specializzazione nell’esprimere il suo talento, questa sottotraccia magnetica che lo ha guidato, è stata anche la coincidenza che da ragazzi ci ha fatto incontrare e che ha continuato in qualche modo a farci sentire uniti, quasi nello stesso lavoro, per tutti questi anni.
L’ossessione dei visi ha in qualche modo, contrassegnato la carriera di entrambi. Lui ha seguitato a trasferirla sulle tele del suo cavalletto ed io su quella dello schermo. Abbiamo passato la vita a scrutare facce, catalogare i tagli degli occhi, le curve dei sopraccigli, la discesa delle palpebre, le curve dei nasi, la sinuosità delle bocche, le guance, risucchiate o cascanti, o carnose o rubizze, gli zigomi sporgenti o piatti, coi pomelli accesi oppure esangui, le forme delle orecchie, quelle espressioni, quel sorriso, quel tic, un modo di corrugare la fronte, di sporgere le labbra, di spingere il mento in fuori o ripiegarlo cardinaliziamente sul collo.
Centinaia, migliaia di volti, forse, che sono valsi a intraprendere altrettante tipologie, psicologie, altrettante storie che solo il viso umano sa narrare con tanta inesauribile combinatoria di linee, forme, volumi, giochi cromatici, incarnati, coloriti diversi, diverse geometrie e fughe prospettiche, infinite, affascinanti letture.
Ci ha accumunato questo stesso incantesimo, questo sortilegio caleidoscopico di facce, questa stregonesca malèa di fissare in qualche modo un temperamento, una identità, una vita.
E’ un’usurpazione la nostra che può presentare aspetti anche vagamente persecutori, con l’imprevedibile, intempestiva invadenza di presenze ipnagogiche, fantasmi psichici che richiedono udienza a tua insaputa, affacciandosi, non richiesti e inopportuni, dalle zone più occulte della memoria visiva.
Da anni, per esempio, io sono perseguitato da una faccetta, che non ricordo più in quale film avrebbe dovuto apparire; non la scelsi allora, e la fotografia ogni tanto risbucava tra le migliaia di altre che ho nel mio archivio. Capitò anche che un giorno la facessi cercare all’indirizzo e al numero telefonico che c’era scritto dietro la foto. “Ma è morto già da due anni!” mi disse l’aiuto dopo qualche telefonata. E’ passato del tempo da quel giorno, ho fatto molti altri film, eppure quel tipetto un pò calvo, le orecchie a sventola, il mento leggermente spostato, all’improvviso emerge ancora nel buio della mia immaginazione, e lustro, e lucente, stereoscopico, mi fissa con i suoi occhietti pallidi in un gran silenzio come a chiedermi: “Beh! E quella particina?”
Ma forse Rinaldo non vive queste invasioni, perchè l’uso che ha fatto delle facce, l’uso pittorico, ritrattistico, quella specie di trasfusione alchemica che continua a compiere nei suoi quadri, il trasferire i connotati, i sorrisi, gli sguardi, gli atteggiamenti sugli specchi bianchi delle sue tele, dove vengono via via a ricomporsi immagini incorporee e insieme materiali, impressioni di luce in forma umana, non hanno mai, ne hanno mai avuto carattere d’abuso, la mancanza di pietà della sopraffazione, la forzatura del giudizio sogghignante, della rivelazione punitiva.
Rinaldo è riuscito sempre a trattenersi al di qua, è riuscito in qualche modo a stabilire un armistizio con la propria supremazia d’artista, per mitezza di carattere, bonarietà e grazia d’ispirazione. Tutte le tele di Rinaldo, tutti i suoi ritratti, conservano qualcosa del riflesso argentato dello specchio come avessero assorbito la luce da un pianeta ascendente o dalle pareti segrete di un tabernacolo in cui fossero state riposte a decantare per lungo tempo. Fra chi guarda e il soggetto guardato, appare, si rivela questa luce remota, lunare, la luce di un incantamento, di cui l’immobilità viva, delle persone ritratte ripropone la propria impenetrabile vicenda.
Rinaldo ha partecipato come pittore a tutti i miei film, una collaborazione che va avanti ormai da cinquant’anni; in “Roma”, nella sequenza del defilè ecclesiastico, ha creato un’intera galleria di ritratti di personaggi prelatizi, eterei e incombenti, fantasmatici e densi come essenze di incenso o come misteriosi cerimonieri e guardiani di una Chiesa stanca ma indistruttibile.
Averlo accanto nei miei film, sapere che nel suo studio, o in qualche provvisorio stanzone di Cinecittà, fa il suo lavoro, dipinge i quadri e i ritratti che gli ho commissionato, mi comunica lo stesso conforto di una volta, quel caldo sentimento di un’amicizia, di una compagnia che mi rassicura, mi fa sentire più giovane; come quando nei ristoranti, sulle spiagge, o in case sconosciute, intervenendo in tempo, metteva rimedio con quattro tocchi sicuri a quei disastrati conati di ritratto che io, accanto a lui, mi gettavo sfacciatamente a promettere e disinvoltamente ad eseguire, rischiando di screditare per sempre la credibilità della nostra associazione artistica.
Portato a deformare, a dilatare, ad interpretare buffonoscamente o grottescamente i tratti di chi mi sta davanti, forse io non ero adatto a quella fedeltà naturalistica che pure è indispensabile in ogni vero ritrattista, qualunque sia la sua grandezza.
Rinaldo ha invece sempre mantenuto uno sguardo amico, non nel senso di voler compiacere il committente o edulcorare il soggetto, all’opposto, proprio per una sua intima necessità pittorica che è quello di essere amico dei volti, dei sorrisi, della malinconia, dei tratti, della peculiarità di chi gli sta davanti e che tramite il suo pennello chiede di andare ad abitare sulla tela.
Come me, Rinaldo guarda il mondo dalla parte dei visi, è votato all’ossessione delle facce; ma le sue ossessioni miti e un pò fatate, sono dotate di una grazia che non conosce rivalse e soprattutto trattenute dalla mano ferma di un vero indiscutibile talento. Basta sfogliare questo volume che riproduce i suoi lavori, i ritratti e i numerosi autoritratti che Rinaldo ha scelto di far convivere in queste pagine: si avverte con gioia e emozione di essere stati invitati a condividere un segreto, di essere stati ammessi ad un’indiscrezione sensuale e salutare.
Certo, potrei chiacchierare ancora un pò, dire per esempio quanto mi piace il mio ritratto, io che di solito lascio nella disperazione i fotografi censurando, o peggio, stracciando implacabilmente tutte le foto che mi fanno sul set, perchè non mi piacciono mai, o meglio sono io che non mi piaccio: mi vedo sempre goffo, pelato, gonfio, sgraziato; e la faccia? Come ci si può fidare di uno che ha una faccia così? Sfuggente, ambigua, non si sa mai cosa pensa, nè dove sia, bambinesca, losca, non trovo una definizione che mi conforti un pò. Vi ricordate Febo Mari? E’ stato forse il primo attore che ho visto quando ero bambino. Come mi sarebbe piaciuto avere una faccia così. Oppure quella di Edgar Allan Poe. Si è vero, il ritratto del mio amico pittore non c’entra niente nè con il romantico attore della mia infanzia, e ancor meno con lo spettrale, affascinante, bellissimo volto del poeta maledetto. Posso però guardarlo e guardarmi con simpatia e solidarietà.
Grazie, Rinaldo, buon lavoro e buona fortuna.
Federico Fellini